L’importanza (anche) di dimostrare

L’importanza (anche) di dimostrare

La divulgazione e parte della stessa letteratura di riferimento di didattica della matematica, oggi, tendono a passare la matematica, ai livelli di studio primari e secondari, come il gioco delle regole. Regole da imparare a memoria, da applicare come in un grande gioco dell’oca. Visione, quest’ultima, che sta passando anche all’università. Ricordo, per esempio, che io dovetti, per passare l’esame di analisi I, imparare più di un centinaio di teoremi e le relative dimostrazioni. Qualche anno fa mio fratello, laureatosi in ingegneria gestionale, ha dovuto impararne solo gli enunciati e la loro applicazione. E neanche di tutti! Nessuna dimostrazione. Nulla sulla costruzione del linguaggio o dello strumento, nulla sui perché, nulla sull’interconnessione e interdipendenza dei diversi oggetti matematici. L’analisi matematica all’università, così come la matematica alle superiori, come un insieme di strumenti che funzionano se applicati in un determinato modo e momento e non come un linguaggio auto-consistente, una teoria assiomatica, un frutto dell’intelletto, dell’immaginazione, della deduzione, dell’astrazione, della generalizzazione. Sorte analoga quella della fisica, dove le leggi spesso “piovono” dall’alto e non da inferenze empiriche (se non narrate) o da deduzioni logiche derivanti da principi e leggi già conosciute.

Questo modo di insegnare non rispecchia la mia visione delle due materie. Innanzitutto perché anche i giochi da tavolo sono tanto migliori, diffusi e giocati quanto più le regole sono comprensibili, semplici e condivise. La matematica e la fisica quindi come insieme di regole che “piovono dal cielo” le trasformano in un mondo arcano, incompreso e incomprensibile, che funziona “chissà perché” e che quindi va accettato, rispettato se non temuto, ma sicuramente non vissuto. Usato, se non come un gioco, come un utensile. Dimostrare i teoremi e derivare le leggi, aiutare cioè il discente a capire perché “è vero”, va invece nel verso opposto.

Senza contare che lo studio delle dimostrazioni va proprio nella direzione di sviluppare tutti gli aspetti dell’intelligenza logico-critica.

Ora non vorrei essere frainteso o confuso con un talebano delle dimostrazioni. Non si può dimostrare tutto, soprattutto alle superiori, soprattutto nei licei umanistici: a volte mancano gli strumenti, altre volte il tempo. Ma molto sì, a partire dai primi anni, quando le dimostrazioni sono più leggere. Poi, nel corso degli studi, quando devi saltarne una, per ragioni di tempo o di opportunità, l’accennare loro che si può dimostrare è sufficiente perché ci credano in modo meno dogmatico, consapevoli che potrebbero, se volessero, cercare loro la dimostrazione e studiarsela. E le regole imparate dopo che le si è dimostrate rimangono di più a mente e le applicano con una consapevolezza diversa. Senza contare che vivono così la matematica finalmente per quello che è: una costruzione dell’intelletto umano.

Non sono un ingenuo. So benissimo che questo modo di lavorare non dà subito frutti. Anzi. Spesso i ragazzi reagiscono a tutta questa teorizzazione irrigidendosi, imparando le dimostrazioni a memoria senza capirne il perché, rischiando di allontanarsi maggiormente da una materia che non riconoscono più. Ho avuto però la fortuna di insegnare otto anni nella stessa scuola. La continuità, soprattutto agli inizi della carriera, penso sia una gran cosa. Soprattutto per soppesare come certe scelte didattiche si riflettano sull’apprendimento della materia, per vedere come certi semi crescano. Mi sento di poter dire che lavorare in questo modo, nel tempo, dà i suoi frutti proprio nella direzione indicata. Non per tutti, non sempre, ma in un numero rassicurante di casi e con una buona profondità.

Ovviamente i ragazzi, quando incontrano le prime dimostrazioni si spaventano. Non capiscono il perché del generalizzare, si chiedono il perché di tutte quelle lettere (“dalla matematica sono scomparsi i numeri?”), si chiedono se e cosa dovranno rifare loro nei compiti in classe (prima preoccupazione della maggior parte degli studenti: loro faro e nostro fardello, loro motivazione e nostra colpa). Solitamente a questo punto propongo loro l’esempio di Beethoven.

“Vi piace la musica classica? Perché la storiella funzioni dovete rispondermi di sì. Riproviamo: vi piace la musica classica? Bene, sapreste suonare la nona di Beethoven? Sapreste comporla voi? Più musica ascolti più riesci ad apprezzarne le variazioni, i virtuosismi, le innovazioni, le simmetrie e le regolarità. Poi puoi sempre provare a suonare uno strumento: prima il solfeggio, poi le prime musichette, sino alle grandi sinfonie. E a forza di fare e rifare, suonando spartiti già scritti, leggendoli prima ed imparandoli a memoria poi, ti rendi conto del perché una certa nota “sta bene” dopo un’altra. E a forza di suonare musica scritta da altri cominci ad improvvisare sul tema: aggiungendo, variando, cambiando strada. Sino a che, qualcuno, comincia a comporre. Ecco, la matematica e il dimostrare funzionano nello stesso modo. A forza di fare esercizi e problemi si cominciano ad apprezzarne la sua struttura, le sue regole, i modi ed i tempi. Poi, imparando a memoria e riproponendo le dimostrazioni si impara a “suonarla” e sforzandosi di capire perché certi passaggi sono stati fatti si comincia ad intuire cosa ha spinto chi per primo ha fatto la dimostrazione in quella direzione… sino a che qualcuno non comincia a improvvisare sul tema. E raramente nasce un Beethoven. La preoccupazione principale quindi non deve essere “io non avrei fatto così”, pensiero che diventa demotivante  se non addirittura paralizzante. No, l’attenzione deve essere tutta rivolta a capire se certi passaggi possono essere fatti e solo in un secondo momento si può ragionare sul perché sono stati fatti. E come per la musica, dove chiunque può ascoltarla e apprezzarla, tutti o quasi possono suonarla, anche se a livelli diversi, pochi possono improvvisare e i geni sono più unici che rari, anche nella matematica chiunque può leggerla, tutti possono rifare esercizi e dimostrazioni, molti possono risolvere problemi, anche se a livelli diversi, tanti possono abbreviare o interpretare delle dimostrazioni, pochi ne possono inventare di nuove e indipendenti… e i geni sono ancora una volta più unici che rari”.

Visto in quest’ottica l’insegnamento richiede, soprattutto i primi tempi, di presentare le dimostrazioni più semplici o magari diverse dimostrazioni per lo stesso teorema sottolineandone differenze e peculiarità, di rassicurare molto i ragazzi che davanti ad una dimostrazione si irrigidiscono, di riprendere gli strumenti usati in itinere come le proprietà (facendo magari un esempio numerico per richiamarle), di chiedere agli studenti di concentrarsi principalmente sul “è lecito questo passaggio?” e non sulle sue motivazioni e di riprenderla, una volta terminata, sottolineando, con il senno di poi, cosa ha spinto il matematico in quella direzione. E i ragazzi devono assolutamente studiarla a casa il giorno stesso, prima che si trasformi in un insieme di simboli privi di significato.

Uno dei problemi principali per chi fallisce nello studio della matematica e della fisica è il faticare nel raggiungere gli obiettivi minimi. Durante le valutazioni si richiedono ovviamente esercizi e problemi, definizioni ed esempi e in quest’ottica le dimostrazioni affrontate in classe diventano qualcosa che tutti possono riproporre (dimostrando quindi di aver studiato). Ovviamente è auspicabile che le sappiano ricostruire, ma che le ripropongano a memoria è preferibile al nulla. E così il dimostrare si trasforma in rinforzo proprio per quelli che col “far ci conto” hanno più problemi.

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p.s. quando un insegnante diventa di ruolo deve necessariamente passare un periodo di prova. Il presente articolo è un estratto della mia relazione finale di quel periodo della mia vita.

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10 thoughts on “L’importanza (anche) di dimostrare”

  1. Nonostante il 3+2 nella maggior parte delle facoltà di ingegneria (almeno nel nord ltalia) le dimostrazioni vengono fatte e richieste all’esame non solo nei corsi di analisi, fisica matematica o metodi matematici. Mi riferisco a moduli come scienza delle costruzioni, meccanica dei fluidi, meccanica dei solidi, meccanica applicata ed altre di base a seconda dell’indirizzo. Questo articolo a mio parere dimostra una certa superficialità. Ho incontrato laureati in matematica non in grado di studiare il grafico di una funzione composta di analisi 1 (ingegneria) ma non mi sognerei mai di affermare che i matematici siano carenti nelle esercitazioni.

    1. ciao carmine. scusa, ma non capisco la critica, o dove sia la superficialità del mio intervento.
      non ho mai sostenuto che gli ingegneri siano generalmente carenti sull’impostazione teorica. ho riportato un esempio concreto per poi aprire una riflessione sulla visione che ho della materia e sul come, secondo me, sarebbe da insegnare.
      ti prego, quindi, spiegati meglio e magari dimmi cosa pensi in merito. grazie.

      e visto che ci sei, leggi l’intervento poco sotto di Massimo Ferri (prof universitario di lungo corso qui a Bologna).

  2. Buongiorno Federico… So di essere “fuori tempo massimo” rispetto alla velocità del web, ma… che vuoi, sono molto lenta nelle reazioni. La prima volta che ho letto questo tuo articolo, la sola idea che potesse esserci qualcosa di buono nell’imparare una dimostrazione a memoria mi ha fatto rabbrividire e mi ha impedito di vedere quanto di buono ci fosse in quello che scrivevi. Ti ho riletto più vole (poi dicono che le relazioni dell’anno di prova non le legge nessuno…:) ) e ho pensato alla fine di essere sostanzialmente d’accordo con l’idea di fondo: dimostrare è importante. Ho anche pensato che alcune differenze sostanziali tra il mio e il tuo punto di vista sono legate proprio al nostro… punto di vista: io vedo le cose dalla scuola media, tu da quella superiore, di cui io ormai ho solo un vago ricordo e con gli insegnanti della quale solo sporadicamente ho modo di confrontarmi. Però ecco, quello che io vedo dal mio punto di vista, è che il nostro scopo ultimo è insegnare a dimostrare e insegnare perché dimostrare è importante (insomma: che differenza c’è tra dimostrare e alzare la voce?). E a questo fine, far imparare a memoria le dimostrazioni fatte da altri penso possa essere ad un certo livello utile, ma in certi casi anche dannoso. E’ dannoso per chi si sentirà tagliato fuori da questi ragionamenti e li imparerà a memoria senza capirli, come imparerebbe definizioni, enunciati, regole. Di persone così ne ho conosciute tante quando ero al liceo, quando frequentavo l’università e ne vedo ancora oggi tra colleghe, maestre e (pochi) alunni. Invece è molto utile per chi ha capito a che cosa serve dimostrare e vuole in qualche modo affinare le sue tecniche di dimostrazione. Non so se riesco a spiegarmi…
    Non ti ho mai commentato in questi mesi proprio per la paura, nel mio piccolo, di non riuscire a spiegarmi in poche righe. Poi stamattina leggendo Polya mi sei tornato in mente:
    “La matematica è considerata una scienza dimostrativa. Ma questo è solo uno dei suoi aspetti. La matematica compiuta presentata in forma compiuta appare come puramente dimostrativa, consistente solo di dimostrazioni. Ma la matematica in formazione assomiglia a ogni altra conoscenza umana in formazione. Si deve congetturare un teorema prima di dimostrarlo; si deve congetturare l’idea della dimostrazione prima di sistemare i dettagli. Si devono combinare osservazioni e seguire analogie; si deve provare e riprovare. Il risultato del lavoro creativo del matematico è il ragionamento dimostrativo, che si conclude con una dimostrazione; ma la dimostrazione è scoperta attraverso un ragionamento plausibile, attraverso congetture.”
    George Polya, Mathematics and Plausible Reasoning
    Ecco io penso che, sulla dimostrazione, ci sia soprattutto bisogno di un lavoro parallelo (quindi non per forza alternativo al leggere e ripetere dimostrazioni fatte da altri). L’esigenza del dimostrare nasce quando di una cosa non si è affatto sicuri; ecco: io credo che dando per buono l’enunciato di un teorema e dicendo ai ragazzi “Questa che vi do è la dimostrazione” si perda completamente il senso, la motivazione. Secondo me quello che sarebbe indispensabile fare (ripeto, magari accanto al far loro vedere le dimostrazioni classiche di qualche teorema) è farli scontrare con delle realtà mica tanto evidenti, insinuare in loro il dubbio, far sentire loro la necessità di qualche ragionamento che convinca del fatto che è “sempre” così oppure che non è “sempre” così. E far costruire loro questi ragionamenti, e passarli al vaglio dei loro compagni, e provare, e riprovare e poi alla fine costruirci su una dimostrazione credo sia ciò che davvero possa ridare alle dimostrazioni e alla matematica il vero senso che hanno.
    Ciao!

    1. Non c’è molto da aggiungere, quello è il senso ultimo. Tieni solo che, quando esco da quelle lezioni, sono sempre spolto!

      …per il resto, Felice che qualcuno legga i miei articoli e che questi servano ad una metariflessione.

      Buon anno!

  3. Molto semplicemente, per imparare bisogna studiare, riflettere, applicare e riporvare, forse anche Pico della Mirandola e Leonardo dovevano percorrere questo nostro umile e faticoso percorsa, purtroppo le Nostre Classi Dominanti rottami di destra e di sinistra del secolo scorso ci riempiono di frasi apodittiche piene di assiomi ed assiologie e stanno vincendo ….. pane scondito al popolo e Belen in Imago …

  4. Eh, a Ingegneria il crollo c’è stato col maledetto 3+2. Prima i nostri corsi erano abbastanza equivalenti a quelli di Matematica, tant’è che ci sono stati tanti passaggi di corso, alcuni dei quali fortunatissimi. Ora non è proprio più possibile.
    Io mi accontento di far rilevare il filo logico che lega gli enunciati (che è un modo furbo per contrabbandare le dimostrazioni, senza spaventare i ragazzi).

  5. Pienamente d’accordo con ogni parola. Durante le scuole superiori ci vuole fortuna nell’incontrare un docente che abbia la pazienza e il metodo per spiegare con cura una dimostrazione, ma è il mezzo giusto per non rendere la matematica un monolite che piomba in testa. Il grande nemico è il tempo… o magari la sua gestione.

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