Frontal lesson

5 Dicembre 2018

Frontal lesson

 

Flipped classroom, upside down teaching, e-learning, book in progress, … nella ricerca in didattica, ormai da anni, è tutto un fiorire di metodi alternativi, pensati per mettere lo studente centro dell’azione del docente. Tecniche atte a coinvolgere, svecchiare, velocizzare, includere, ma soprattutto a portare il discente a imparare a imparare. L’obiettivo quindi dell’insegnare è passato gradualmente dalle “conoscenze” alle “competenze”. I discenti sono passati a essere i protagonisti: attori e pubblico al contempo.

Chissà perché poi ogni singola volta che si studia una nuova tecnica di insegnamento o una nuova metodologia didattica si usano, per descriverla, neologismi anglofoni? Forse perché una “classe capovolta” rende un’immagine che restituisce un senso di poca credibilità, mentre l’inglesismo richiama austerità e credibilità. Mah… fulcro però di queste poche righe vorrebbe essere non tanto una critica filologica alle “didattiche nuove” (vecchie ormai, in alcuni casi, di 50 anni) ma piuttosto una difesa della sana (e vecchia) lezione frontale: la fontal lesson

Premessa importante: insegno alle superiori, più precisamente nei licei, e sono un docente di matematica e fisica. Conosco quindi solo quella realtà ed è questo per me lo sfondo, o se preferite il background, di riferimento.

Innanzitutto troppo spesso mi capita di incontrare ragazzi, anche al liceo, anche all’ultimo anno, che faticano a seguire un discorso articolato. A volte per un deficit di attenzione, a volte per la difficoltà intrinseca che nasconde l’argomentare.

Nel primo caso la colpa principale penso sia dei social, della TV, del cellulare: le nuove tecnologie hanno abituato i “nativi digitali” a registri, tempi e interazioni tali da rendere la loro attenzione troppo spesso simile a quella di un criceto. Nessuno si senta offeso, ovviamente questa vuol essere una metafora, anzi, forse è più un’iperbole, e sono consapevole che il problema non è solo quello, ma se ci pensate bene son convinto che arriverete alle mie stesse conclusioni, soprattutto in termini di “concorso di colpa”: l’abuso di nuove tecnologie e media sta disabituando i giovani a concentrarsi.

Nel secondo caso la causa temo sia anche, non solo, che sono poco abituati a seguire ragionamenti articolati, argomentazioni strutturate, discorsi ragionati. E così faticano: dal prendere appunti al metabolizzare una dissertazione. Credo che la lezione frontale, fra gli altri obiettivi, abbia anche quello di sviluppare la capacità di comprendere, seguire, concentrarsi, riassumere.

Unitamente a tutto questo vorrei sottolineare come in ogni singola disciplina del sapere si siano raggiunti livelli veramente alti. Sembra una banalità, lo so, ma in questo contesto è bene ricordarlo perché l’unico modo che abbiamo per andare oltre è partire da quei livelli. Senza contare che sono quei traguardi raggiunti dal sapere che permettono di comprendere il mondo che ci circonda (sia esso fatto da reattori nucleari o da scelte eugenetiche). Inoltre ogni insegnante ha argomenti della sua disciplina che, per mille e uno motivi diversi, ha approfondito di più. A volte raggiungendo profondità di analisi e collegamenti veramente unici. In questi contesti, non potendo pretendere che i discenti arrivino da soli a certe riflessioni, compiano autonomamente certi passi, siano loro a effettuare determinati collegamenti o tirare le conclusioni, si deve indicar loro la strada. Con questo non voglio mancar di fiducia negli studenti o negare che sia importante che provino a ripercorrere loro i passi del percorso già tracciato, ma se si vuol marciare a buon passo una guida, a volte, è essenziale. Soprattutto con i tempi contingentati che ha la scuola oggi. Per tutti questi motivi reputo che la lezione frontale resti uno degli strumenti imprescindibili. Non l’unico. Probabilmente non sufficiente. Certamente necessario.

Ancora ricordo l’emozione provata quando il professor Silvio Bergia[1] arrivò a scrivere alla lavagna, dopo una lunga dimostrazione nata da un paio di mesi in cui “seminavamo”, E = mc2. Lo stesso brivido che si prova davanti ad un’opera d’arte, un virtuosismo, un tramonto all’improvviso. Mi piace pensare che i ragazzi provino lo stesso davanti agli scenari che alcune mie lezioni aprono (consapevole dei miei limiti, culturali e non). Brividi che solo il “capire” può dare, che non è prerogativa di nessuno dei metodi didattici e che nelle lezioni frontali ha sfumature tutte sue. O meglio, ogni metodologia lo colora di sue sfumature. E a nessuna si dovrebbe rinunciare.

Poi, non dimentichiamocelo, gli stili cognitivi dei nostri discenti sono i più svariati. C’è chi si trova bene ad ascoltare e chi a fare. Chi ama ragionare su scritti e chi solo tramite esercizi o applicazioni pratiche riesce a far suo un concetto. Ed è su tutti che dobbiamo lavorare per far si che loro da un lato apprendano e dall’altro sviluppino le diverse intelligenze.

Infine la scuola dovrebbe preparare i cittadini ad entrare nel mondo: sociale, politico, del lavoro. Le conoscenze sono imprescindibili, perché possano partecipare. Il pensiero di Kant, il funzionamento di un reattore nucleare, gli scritti di Pasolini, la storia del secondo dopoguerra, le crociate, la grotta platonica, la clonazione, l’idea di proporzione e di caos, il teorema dei grandi numeri, il diritto romano, le regole del basket, il genio di Mozart, le intuizioni di Galileo, il coraggio di Giordano Bruno, la fisica del volo, la visione del mondo di Leopardi, il terrorismo degli anni ’80 – ’90  … Potrei continuare ore, letteralmente, a elencare ciò che si può “studiare” a scuola. E la sola “nuova didattica” non è assolutamente sufficiente per poter affrontare tutto, così come l’imparare ad imparare non è sufficiente a essere buoni cittadini. So di ripetermi: li reputo necessari, ma non sufficienti. Se si vuole una scuola che formi veramente Cittadini è su tutti i piani didattici che si deve lavorare, dal frontale al capovolto: alternandoli, intersecandoli, mischiandoli.

Buone lezioni a tutti.

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[1] Che non ringrazierò mai abbastanza per l’esempio che è stato, come uomo e come insegnante.

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