È perché possono scegliere!
5 Ottobre 2020

“È perché possono scegliere!”.
“Non è giusto”.
“Cosa dovremmo fare noi? Siamo sempre aperti, decine di persone diverse ogni giorno. C’è anche chi entra tossendo e…”.
“Chi entra tacendo?”
“TOSSENDO!”, si ritrova a dover (quasi) urlare la barista per farsi sentire dalla signora al di là del bancone. Entrambe con la mascherina, di circa sessant’anni una, di dieci anni più vecchia l’altra, separate da una parete in plexiglass.
“Oddio me mama[1]! Tossendo?”.
Sono al bar. Non quello vicino scuola, quello imboscato dietro piazza San Francesco: un po’ per evitare di incrociare i ragazzi e il loro vociare prima dell’inizio delle lezioni, un po’ perché qui hanno il quotidiano che mi interessa. Mi piace iniziare la giornata di lavoro con pasta, cappuccio[2] e giornale. Oggi però la mia routine è “disturbata” da una marea di luoghi comuni che le due signore stanno condividendo tra loro e col mondo (basti pensare che io le sento benissimo anche se sono fuori dal locale, al di là di una vetrata, sotto al portico). Se fosse una giornata come le altre, anzi, come una volta… perché ormai le giornate sono queste e il pensiero che “la nuova normalità” possa, se non divenire per sempre, essere per un anno ancora mi atterrisce. Dicevo, se fosse come prima, sarei entrato e avrei ribattuto.
“…classi piccole… ambienti sovraffollati… aria viziata da 5, 6 ore di parole… parlare per ore indossando la mascherina…”, mi ritrovo a pensare. “Ragazzi che chissà cosa hanno fatto sino al minuto prima di entrare in classe…”, sono frammenti del discorso che avrei fatto. “Lavoratori fragili, per un mix di età e condizioni…” , noi docenti, come tutti, rimugino. Non sono intervenuto perché mi scocciava abbandonare il giornale per poi cercare la mascherina ed entrare nel piccolo locale e mi ritrovo felice di non averlo fatto, tra dubbi e pensieri.
In fondo io conosco e posso raccontare solo la mia realtà: una scuola di 1800 studenti ripartiti su due sedi[3] che ha la fortuna (grazie non solo agli spazi ma anche alla preside e il suo staff) di riuscire per ora a fare tutto in presenza[4]. Biennio e triennio entrano in momenti diversi; le classi hanno percorsi obbligati e specifici di ingresso e uscita; i banchi sono distanziati su posizioni segnate da nastro bianco e rosso a terra; in ogni aula, nei corridoi, nei bagni, vicino le macchinette c’è l’igienizzante[5]; il docente può togliere la mascherina, quando parla, solo se sono assicurati i due metri di distanza (quasi sempre); i ragazzi possono toglierla, quando al banco, ma spesso la indossano; ci si può recare al bagno solo uno per classe, anche durante l’intervallo (che è rigorosamente sempre da seduti) mentre per i docenti l’andare in bagno a volte resta un miraggio; le prove scritte vanno lasciate “decantare” 48 ore prima di essere corrette e prima di essere riconsegnate; le riunioni tra docenti e i ricevimenti sono a distanza; appena c’è un positivo in una classe tutti i ragazzi e i docenti dei tre giorni precedenti sono messi 14 giorni in quarantena con un tampone in ingresso e uno in uscita (almeno è stato così per la prima classe a cui è capitato…); …
Di altre realtà invece ho informazioni solo di seconda mano: racconti di colleghi che ho sentito via social o che ho incontrato in qualche evento divulgativo, o articoli di giornale. Ci sono scuole in cui mancano banchi; licei in cui vanno in presenza solo le prime e le quinte; istituti in cui le classi sono divise a metà e i due gruppi si alternano con una settimana in presenza e una a distanza (qui cosa penso della DAD); classi i cui studenti sono divisi in 5 gruppi e saltano le lezioni a turno per un giorno (andando a scuola 6 giorni su sette questo assicura che ogni settimana si perda un giorno diverso); scuole dove manca più della metà dei docenti; scuole che hanno diviso le lezioni tra mattina e pomeriggio; scuole in cui hanno messo in quarantena numerose classi e altrettanti colleghi; …
L’unica certezza è l’incertezza.
Capisco quindi che chi sia fuori dalla scuola non abbia un’idea chiara di cosa voglia dire viverla, al tempo del Covid… Capisco invece meno alcuni colleghi ai quali viene chiesto un “di più”, che possa essere qualche ora di straordinario (pagato), o attenzioni, o formazione straordinaria, o partecipazione, o l’assunzione di responsabilità, e che si mettono di traverso. Ovviamente non può essere sempre tutto dovuto o sulle spalle del “volontariato” che tanti insegnanti da sempre fanno, e tutti abbiamo vite, fuori, da vivere, ed è vero che il comune, il provveditore, la regione, il ministero e lo stato hanno colpe e ritardi, ma oggi, più che mai, c’è bisogno che docenti, maestri, professori e insegnanti si assumano la responsabilità del mestiere che hanno scelto. Della loro missione.
…
Pago la colazione, piego il giornale e vado a scuola. Fuori dalla sede gruppi di ragazzi che chiacchierano vicini vicini e ci sono tutti: quelli che non credono nella scienza, senza mascherina; gli omeopati, con mascherine sotto al mento; i fashion, con il cencio intorno al braccio a mo’ di borsetta; quelli che la scienza non l’hanno capita, con la bocca ben coperta ma col naso che spunta. Una mia collega li chiama “gli esibizionisti”. Gruppi di classi diverse: baci e abbracci.
Indosso la mia mascherina, passo per l’aula insegnanti, saluti abbozzati, recupero un libro e salgo in classe. Quando entro sono tutti e 25 seduti al loro posto, banchi ben distanziati, mascherine su naso e bocca, solo una ragazza in bagno che quando rientra si igienizza le mani.
Mi appoggio alla lavagna, sfilo la mia protezione dal viso e respiro profondamente, dato che dopo 6 rampe di scale col viso coperto agogno una boccata d’aria. Il brivido del dubbio mi corre lungo la schiena. Lo scaccio e comincio.
“Buongiorno”.
“Buongiorno”.
“Come state?”.
“Bene, grazie e lei?”.
Già. Come sto, io?
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[1] Tipica esclamazione bolognese atta a mostrare stupore e preoccupazione assieme.
[2] Brioches e cappuccino.
[3] In realtà c’è anche la sezione di musicale che ha una sua sede, ma conta un centinaio di iscritti…
[4] Oggi è il 24 settembre, e per fortuna c’è un bel Sole, anche se velato, che mi permette di scrivere queste righe all’aperto. Temo l’arrivo del freddo…
[5] Mai avrei pensato che le mie mani avrebbero assunto più alcol del mio intestino!
1 commento
Ester
Già, come stiamo noi insegnanti? E come stanno i ragazzi, oltre quel “bene, grazie”?
Sabato 31 ottobre, terza ora, matematica. Entro in una prima del Liceo scientifico, indirizzo scienze applicate, una classe turbolenta, i cui componenti hanno già collezionato più di 20 note disciplinari nelle prime sette settimane di scuola. Otto assenti su 22 studenti. Nemmeno il tempo di entrare in classe e chiedere un po’ di silenzio e ordine e iniziano le domande e le polemiche: “La bidella ce l’ha con noi, la classe vicina fa più confusione ma lei rimprovera solo noi. La bidella non pulisce, i banchi non sono disinfettati… Perché veniamo a scuola? Perché non ci fanno fare didattica a distanza? Un nostro compagno è in quarantena perché ha la sorella positiva, perché non ce l’ha detto subito? Perché ieri quell’altro compagno è venuto a scuola anche se non stava bene? Sono venuti i genitori a prenderlo e oggi ha 38 di febbre…”.
Potrei replicare con altrettante domande: “Come vi siete comportati finora con la bidella? Vi rendete conto di quanto lavoro e quanta pressione ha? Perché non li disinfettate anche voi i banchi, come fate in laboratorio di fisica, visto che abbiamo il flacone e il rotolo di carta apposta? Perché al cambio dell’ora, quando siete da soli qualche minuto e vi alzate, non mettete la mascherina? Perché vi passate la merenda? Perché avete le finestre chiuse anche se non fa freddo? Come avreste reagito se il vostro compagno vi avesse comunicato subito la malattia della sorella? Voi lo direste subito se vi succedesse?”. Lo faccio solo in parte: questi ragazzi oggi hanno bisogno di far uscire le loro emozioni, hanno bisogno di essere ascoltati. Sono disorientati, spaventati dalle notizie e dalle chiacchiere, forse dal turbine di numeri senza significato a cui ogni giorno veniamo esposti, si rendono conto che anche gli adulti sono incoerenti e brancolano nel buio, hanno perso la fiducia in molti adulti. Hanno pochi mezzi per esprimere le loro paure e le loro opinioni: non riescono ancora ad ascoltarsi e a rispettare i turni di parola, si sentono oppressi da regole che non comprendono. Si sfogano in modo aggressivo, come nei peggiori talk show attaccano le persone invece dei comportamenti, non si rendono conto che vedono le incoerenze degli altri, ma non le proprie (proprio come noi adulti).
Parliamo, anzi parlano. Io ascolto, ringrazio per le condivisioni, ogni tanto faccio notare qualche aspetto trascurato; a piccoli passi chiedo conto anche del loro comportamento; suggerisco che si dicano le proprie emozioni: “Ci conosciamo da quattro anni, perché non mi ha detto che sua sorella è ammalata?”. Chiamalo, dillo a lui: digli come ti sei sentito, cosa avresti voluto che facesse, digli che ci tieni alla vostra amicizia. A fatica faccio rispettare i turni di parola. Qualcuno, preso dall’emozione, non è capace di aspettare e interviene con foga. Ci vuole qualche minuto per ritornare ad ascoltare, alzare la mano, formulare il pensiero in modo meno impulsivo.
Un po’ alla volta i toni diventano meno polemici, escono osservazioni e commenti, qualche esperienza personale, i timori di qualcuno, lo spaesamento di molti, la mancanza di fiducia, qualche proposta concreta. Un’opinione divergente da un ragazzo che non ha paura ad esplicitarla, nonostante sia il solo che la pensa così: che grande regalo! Lo ascolto con speranza.
“Perché non le scriviamo queste cose? Perché non le rendiamo pubbliche, in modo che gli adulti possano capire che cosa vive, che cosa prova, che cosa pensa un ragazzo di 13-14 anni? Chiediamo aiuto alla prof di italiano…”
“No, facciamolo noi!”.
“Se lo facciamo noi, non va a scapito della matematica, è lavoro in più”.
Accettano, sull’onda dell’entusiasmo. Chissà se riusciremo a essere costanti e scrivere qualcosa. Sarebbe molto utile a questi ragazzi: affermare chi sono, cosa provano, le loro opinioni, le loro proposte, trovare i mezzi per farlo in modo civile. Iniziare a diventare adulti.
Passa l’ora, c’era ricreazione ma ormai è finita, dico che mi dispiace che l’abbiano persa e mi rispondono: “Fa lo stesso”. Per la prima volta, per 60 minuti di fila nessuno ha toccato il cellulare.
La più utile ora di matematica dall’inizio dell’anno.
E adesso? Cerco coerenza e creatività per continuare: continuare il dialogo e continuare la matematica.